Oggi la fotografia è più che mai equivocata
L’ultima tendenza della fotografia ritratto sembra spingere verso una forma estrema di automatismo e anonimato. Entri in uno studio: sei solo. L'illuminazione è già preimpostata, il fondale è fisso, la macchina fotografica è pronta. Non c’è fotografo, nessuna voce che ti guida, nessuno sguardo che ti osserva. Devi solo metterti in posa — o ciò che ne resta — e lo scatto avviene da sé, da una macchina programmata per “fare ritratti”.
È un’esperienza asettica, priva di relazione, svuotata di qualsiasi scambio umano. Non c’è spazio per l’imprevisto, per l’errore, per la scoperta che avviene nel dialogo silenzioso tra chi ritrae e chi si lascia ritrarre. Non c’è più il tempo condiviso, il rituale dell'incontro, lo scambio sottile che, per decenni, ha fatto della fotografia un atto di presenza e di riconoscimento reciproco.
Questa tendenza non è solo un’evoluzione tecnica: è un equivoco profondo sul senso della fotografia contemporanea.
Abbiamo ridotto il ritratto — che per sua natura dovrebbe essere relazione, sguardo, ascolto — a un automatismo replicabile, disumanizzato, funzionale solo alla produzione seriale di immagini.
Ma un'immagine non è mai solo un'immagine. È il risultato di un tempo condiviso, di una tensione reciproca, di un’esposizione (in tutti i sensi) che non si può delegare interamente alla macchina.
In questa pratica "neutra", il soggetto è lasciato solo davanti a un occhio che non guarda, ma semplicemente registra. È forse questa la rappresentazione perfetta della nostra epoca? Un’umanità sola, osservata da dispositivi impersonali, che produce immagini senza più un vero scopo comunicativo, se non l'autoreferenzialità?
Forse, più che una tendenza, questa è una soglia critica: un momento in cui la fotografia deve interrogarsi non solo su cosa mostra, ma su come e perché lo fa.